La prima volta che mi fu chiesto “ cosa è per te casa” era un anno fa, ma forse meno, o quasi.
I pomodori erano più maturi e la mia pelle più scottata dal sole.
Fu sicuramente la prima volta, da persona connessa.
Cosi mi sembra di ricordare
Mi vengono in mente cose da dire tipo “è dove vuoi tornare”, “è da dove non vuoi più fuggire”.
Per me casa, invece, è il luogo del perdono, il luogo dove riuscire a perdonare gli errori commessi.
La mia casa ha delle finestre con dei portelloni in ferro, protettivi, sicuri (meno che una volta, che tutta questa presunta sicurezza non funzionò ) e che, se tutti chiusi, formano una fortezza invalicabile verso il fuori e dal di fuori.
E’ stata una casa così chiusa anche con me, anzi con noi, facendo morire la passione, la ricerca e
la curiosità esistente dopo il dolore del buio.
Ho imparato, oggi, a tenere sempre tutto aperto e lucente, arioso e luminoso, e a scrivere sui muri direttamente, sulle porte, e a rendere colorato il bianco delle pareti.
Questa casa mi ha insegnato a resistere (oppure a non resistere?) al dolore di una perdita, di un abbandono e di un sogno abortito, che non sono stato capace di continuare e sognare e a perseguire come un valore fondante della mia giovinezza.
E’ il luogo, questa mia ultima casa, dove sono tornato a essere giovane, a sentirmi bello (o meglio non più brutto) e a conoscere la consistenza di un vero abbraccio. Dove ho smesso di avere paura aprendo le finestre al sole alla vita e alle persone da amare senza farlo.
Da questa casa tantissimi anni fa scappai perché mi apparve lontana, isolata e in fuorigioco. Inseguivo un mio fantasma, forse un amore, che mi divorava per compulsiva presenza, vicinanza, urgenza e subalternità. Sono tornato a tratti, in piccole dosi dopo tempo, riscattando quella mia vigliaccheria nel non voler capire, nel non voler sentire.
E’ una casa così bella che certe volte mi viene il dubbio (più paura e dolore credo) che a qualcuno piace stare qui più che stare con me. Come se la casa travalicasse la mia presenza e mi rendesse, ancora una volta, invisibile. Chi mi viene a trovare e poi va via lascia tracce che non integro nella logica della casa. Rimetto a posto, pulisco e sistemo come per affermare, di nuovo, la mia presenza, per alzare la mano dal fondo di un’aula o per chiedere un bicchiere di aranciata antica.
E’ il luogo delle “ciccioline”, le mie quattro femmine di cane, futuri orologi della mia permanenza in questa casa. Senza di loro non ci sarà più casa e casa diventerà il solo zaino che porterò per andare dall’altra parte del mondo lasciando tutto a chi vorrà tenerselo.
Ma la mia casa è tanta gioia, cibo buono e stanze dove entrare per capire la profondità del silenzio che emanano mescolate, in estate, al suono delle cicale.
In ogni stanza, meno una, c’è un macchinario, dal più semplice al più complesso, per ascoltare musica. Anche questa è la mia casa.
Nonostante le mie paure, la mia casa diventa altro quando si riempie delle persone del mio cuore.
Le persone del mio cuore sono quelle a cui delego lo smontaggio del mio ordine rassicurante perché mi fido del loro fare e del loro stare nel mio mondo, nel mio cuore. Nella mia casa quindi.
E allora vedo che tutte le stanze e i vasti luoghi esterni che si muovono in direzioni da me non previste e quindi magnifiche e sublimi. Caffè, ciabatte, lenzuola e scie odorose di corpi diversi dal mio. Hanno quasi sempre nomi di donne però, come se il mio fosse un corpo e un cuore disadattato, come se alla musica della femminilità preferissi il silenzio del mio dolore, non più lupo e non più assassino di speranze sognate.
La mia casa è la casa di un sognatore che ha deciso di continuare a sognare, a preferire il sentire al pensare.
La mia casa è li dove ho smesso i panni giusti e ho indossato i miei e dove ho smesso di preoccuparmi del giudizio ma solo dell’amore che le vicende di questa stanze sanno ricordare e a me raccontare.
La mia casa si chiama Villa Ida.
- La mia casa è dove ho smesso i panni giusti e ho indossato i miei